All’ombra delle Aste

Mi è sempre piaciuto dormire in tenda in montagna, al fresco, con il vento e la pioggia a ricordarmi che, in fondo, basta così poco per sentirsi al sicuro: qualche metro quadrato di telo, una manciata di picchetti, il fornelletto, un sacco a pelo ed è subito casa. Passare la notte in un rifugio invece è un’esperienza profondamente diversa, votata più alle comodità – il piacere di un pasto abbondante, il lusso di un focolare che ti riscaldi, ecc – piuttosto che alle necessità.
Ecco, lì nel mezzo, per coloro che ricercano l’avventura ma preferiscono viaggiare leggeri, spuntano i bivacchi.

La Valle Gesso ne conta parecchi, taluni in pietra, altri in lamiera, ma pochi di essi sono tuttora permeati da quell’inconfondibile sapore d’antico, fatto di tentativi falliti, di prime salite, di imprese eroiche, di giorni grandi. Uno di questi è sicuramente il Bivacco Gandolfo, a guardia del primordiale Vallone del Dragonet: un nido d’aquila posto in grembo a uno degli anfiteatri meno frequentati delle Alpi Marittime, all’ombra pressoché perenne di Asta Soprana, Asta Sottana e della Cima del Dragonet. Proprio qui, dove ora le tenui luci della sera si ritirano a Ovest, lasciando al buio quel profondo solco obliquo che è il Canale della Forcella alle Aste, poche centinaia di metri sopra di noi. I giorni si stanno allungando, il rigelo notturno è potente: io e Luca siamo qui per tentare di salirlo.

Fino a qualche anno fa il mio rapporto con i canali nevosi era un po’ del tipo amore/odio: da una parte non vedevo l’ora che andassero “in condizioni” per poterli salire tutti, partendo dai più addomesticati e appoggiati, per arrivare sino ai più nervosi e ripidi, ma dall’altro il timore che qualcosa potesse andare storto saliva di pari passo. E non intendo per via dell’errore umano che ci segue ovunque andiamo, ma quantomeno si può mitigare, si può limitare al minimo con la pratica, l’esperienza e, soprattutto, una buona conoscenza di sé. Intendo per via dell’incertezza, o meglio, delle probabilità: in aperta parete, a prescindere dalle difficoltà che si possono incontrare, è alquanto improbabile venire colpiti da una scarica di pietre o di neve. I canali invece sono dei veri e propri imbuti, dunque anche il sasso più piccolo che ci scivola all’interno diventa potenzialmente un pericolo. Col passare degli anni e delle salite è sempre andato tutto liscio, forse abbiamo saputo cogliere i momenti giusti, forse la fortuna ci ha dato una mano, chi può dirlo. Poi un sabato, durante un’ uscita in compagnia di amici, ho sfiorato un trauma cranico durante la risalita di un banalissimo pendio erboso, distante ancora centinaia di metri dalle pareti rocciose soprastanti. Le probabilità qui non le avevo neppure considerate, i pensieri erano altrove, sorridevo tra una chiacchera e l’altra, eppure è successo: mi sono trovato “semplicemente” nel posto sbagliato al momento sbagliato, e una pietra mi ha colpito alla testa nell’esatto istante in cui l’ho sentita arrivare.

Una manciata di centimetri più a destra e tanti saluti, una manciata di centimetri più a sinistra ed eccomi qua.

Quell’episodio mi ha fatto riflettere.

In fondo siamo granelli di sabbia in balia del vento: per quanto ci sforziamo di rimanere attaccati alla roccia, ai nostri affetti, alle nostre convinzioni, basta una folata di vento improvvisa e veniamo strappati via.

E non possiamo farci nulla, o quasi. Possiamo imparare ad accettarlo, anziché rinnegarlo, anziché soffocare le nostre paure al grido di “Tanto succede solo agli altri”. 

La morte al giorno d’oggi sembra essere diventata un tabù dall’alto delle nostre certezze, delle nostre sicurezze e comodità, ma in montagna è da sempre una compagna fedele, e chi la frequenta con una certa continuità lo sa bene.

La cosa importante è guardare avanti perché il futuro è là, dinanzi gli occhi di quelli che restano, alla portata di coloro che hanno trovato il coraggio di accettare l’inevitabile. O almeno ci provano.

Tutt’intorno si è fatto buio, una flebile luce calda filtra dalle finestre del bivacco: la stufa è già accesa, la cena quasi pronta. L’indomani sveglia presto, partenza alle prime luci. I pensieri sfrecciano, si accavallano mentre cerco di prendere sonno, ma d’un tratto ecco che l’orologio suona: i piedi sono freddi, gli occhi gonfi, fuori c’è il crepuscolo.

Un po’ di thè caldo, una manciata di biscotti e varchiamo la soglia: l’aria è pungente, giù in pianura si vedono distintamente le luci di Sant’Anna di Valdieri.

Ci avviamo lungo il pendio alle nostre spalle, prima erboso poi nevoso. Mano a mano che ci avviciniamo le pareti sopra di noi sembrano ergersi contro la gravità, imponenti e verticali. Sulla destra si stacca uno sperone, lo sperone della Via Campia alla Guglia del Dragonet, una salita d’altri tempi che attende la nostra visita ormai da qualche anno e per la quale nutriamo un sano timore reverenziale. Ma chissà, mai dire mai. Ci spostiamo a sinistra, i ramponi e le piccozze mordono la neve rigelata che ricopre la rampa obliqua d’accesso al canale.

Le condizioni sembrano ottime, un silenzio surreale si interrompe soltanto quando ci muoviamo, disturbato dal cigolio dei nostri passi e dal tintinnio della ferraglia sull’imbrago. Al termine dello scivolo ci aspetta un traverso. La verticalità qui non è eccessiva, ma l’esposizione è tangibile e voltandomi indietro a cercare il bivacco, sempre più piccolo, laggiù in basso, percepisco quanto sia repulsivo l’angolo di Marittime che stiamo riscoprendo.

Proseguiamo slegati: vincolarsi significherebbe essere lenti ed essere lenti in ambienti del genere non è un bene. Inquietanti rigole, profonde anche più di un metro, incidono il colatoio: a volte le superiamo con facilità, altre ci rimaniamo intrappolati per diversi minuti prima di uscirne nuovamente. Poi giungiamo in un punto cieco, a circa metà canale, dove per aggirare le difficoltà bisogna traversare delicatamente su placche rocciose alla nostra destra: ci diamo il cambio, ci rileghiamo e procedo in testa alla cordata. Il respiro si fa controllato, cadenzato, e passo dopo passo percorro il tiro di corda alternando roccia e neve, neve e roccia, stando attento a produrre il minimo rumore, come a non voler disturbare nessuno.

Una volta superato il tratto chiave recupero il socio e per un attimo ci rilassiamo, ora non resta che proseguire sulle punte fino all’uscita e imboccare la via di discesa. Discesa che tuttavia non conosciamo ancora con precisione, perché dalle relazioni consultate ne risultano molteplici, alcune addirittura non verificate. Io sono fiducioso, abbiamo davanti ancora tante ore di luce dunque ci convinciamo per quella di sinistra, della quale non abbiamo alcuna descrizione.

Sbuchiamo al sole, un’ondata di energia ci pervade, guardiamo indietro e ci stringiamo la mano. Ora però bisogna inventarsi qualcosa per scendere. Ci si para davanti un dedalo di canali più o meno innevati, la scelta di quello più “corretto” non è facile, ci vuole il giusto mix di intuizione e sentimento. Prendiamo le corde dallo zaino, attrezziamo tre soste su spuntoni e ci caliamo con circospezione obliquando verso destra, faccia a valle.

Finalmente intravediamo un sistema di cenge, poco dopo una cascatella sospesa. Le seguiamo brevemente, poi rimettiamo piede sul nevaio sottostante. Col naso all’insù ripercorriamo l’articolata parete est dell’Asta Sottana, fin dove lo sguardo ce lo consente, prima di perdersi sotto la forcella. Il rientro alla macchina è sfiancante, la neve si è fatta pesante, sfondosa e al di sotto un’infida pietraia è in costante agguato alle nostre caviglie. Ma in un certo senso le restanti ore volano via leggere, fresche dei ricordi di questa splendida e selvaggia salita.

Niente cima oggi, nessuna “conquista”, se di conquista si può parlare.

Andare in montagna per me è questo: è crescita, maturazione, arricchimento spirituale ancor prima che materiale.

Un certo Lionel Terray, forte alpinista francese, nel 1961 intitolava così un suo libro: “Conquistatori dell’inutile”. Credo non serva aggiungere altro.

Autore: Loris Molineri

“Dovessi scegliere tra montagna e fotografia, 
mi servirebbe uno zaino più grande.”

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Pubblicato da Le mie Strade di Cuneo e Provincia

Cuneo e Provincia sono fatte di tanti piccoli luoghi.

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