Argentera, dal latino “argentum”, come a indicare qualcosa di bianco, di splendente, e – io aggiungerei – prezioso.

Forse proprio quel candido manto nevoso che, in epoche passate, ne ricopriva i pendii e i valloni durante tutto l’anno, dando vita ad alcuni dei ghiacciai più meridionali delle nostre Alpi. Un manto che ormai fatica a stare al passo con i tempi, che corrono veloci e poveri di precipitazioni, un manto che si fa sempre più sottile, restio all’aggrapparsi sui fianchi vertiginosi della Regina delle Alpi Marittime, il massiccio dell’Argentera. Perchè sì, se fino agli anni ‘60-’70, ad agosto, si poteva ancora sciare lungo le pendici del vicino Monte Gelas tramite rudimentali sciovie, lo dobbiamo proprio a quegli inverni generosi, fatti di nevicate copiose e perturbazioni insistenti che agli occhi delle nuove generazioni paiono sempre più sconosciute.
Per fortuna siamo solo a gennaio, quantomeno ci rimane la speranza che possa ancora “buttarne giù” qualche metro, nonostante in cuor nostro sappiamo essere un’utopia. Per il momento ci faremo bastare questa e così, dopo un rapido sguardo alle previsioni e un confronto sulle condizioni, tiriamo le somme:
chi ci sarebbe questa domenica per il tour dell’“Arge”?!
A distanza di 4 anni dal precedente tentativo rieccomi qui con Luca, Alberto e Marco. Stessa sveglia, stesso ritrovo e stessa allegra compagnia. Il parcheggio delle Terme di Valdieri, in Valle Gesso, ci vede arrivare che ancora è buio. Ci prepariamo alla luce delle nostre lampade frontali: i piedi lasciano le comode scarpe per infilarsi negli scafandri degli scarponi, rigidi e freddi, il tepore dell’auto ci abbandona nell’atmosfera pungente di una “classica” mattinata d’inverno. A breve distanza si ode il torrente che scende dal Lagarot di Lourusa, caotico e limpido allo stesso tempo, segno che non v’è abbastanza neve nei dintorni ad attutirne i movimenti, nè tantomeno da permetterci il lusso di partire sci ai piedi. Anche oggi, come in primavera inoltrata, iniziamo la giornata con un bel portage.

Sono quasi le 7 quando, sci in spalla, cominciamo a risalire i primi tornanti del vallone di Lourusa, a tratti ancora ricoperti da spesse coltri di foglie. Il ritmo è blando, si ride e si scherza: amo questo genere di gite, per così dire “di ampio respiro”. Qui ciò che conta non riguarda la quantità o la qualità della neve, l’incertezza della riuscita non ti abbandona mai del tutto, i cambi assetto diventano nauseanti e dopo ogni colle, canale, o avvallamento capita di trovarsi con lo sguardo volto in avanti, un pò più in là, a fantasticare di esserci già arrivato.
Ma la verità è che quando vieni rapito da certi ambienti vorresti non arrivare mai, vorresti che il Sole tardasse ancora un’ora prima di cedere il passo alla notte, per sbucare su un’ultima cima, sull’ennesimo colle, soltanto più uno, prima di dover concludere quel viaggio durato in fondo solo poche ore, ma così denso di emozioni.
Mi soffermo per un istante lungo il sentiero, che ora ha allungato i tornanti e si slancia in direzione del Lagarot nascondendosi a tratti sotto la neve, di lì a poco finalmente continua.


Provo a spegnere la frontale: il crepuscolo tinge i dintorni con i toni del magenta, l’elegante silhouette del Corno Stella, inconfondibile, incornicia la destra del vallone mentre dietro di noi il Monte Matto, in bella vista, attende l’arrivo delle prime luci. Poco più avanti ci fermiamo per calzare gli sci, lo zaino si alleggerisce di qualche kilo e così anche lo spirito. Ripartiamo subito in direzione del Rifugio Morelli Buzzi, posto a 2.351 m su un promontorio roccioso al cospetto dell’aspra e selvaggia parete N-E del Monte Stella. Intanto sopraggiunge l’alba che incendia le cuspidi più slanciate del circondario e ci invita ad affrettare il passo per godere di quella calda luce dorata al colle del Chiapous, non lontano da noi.


Una volta raggiunto, il Sole ci sorprende ancora senza occhiali, in una frazione di secondo le pupille si fanno più piccole e l’entusiasmo più grande: non siamo che all’inizio di questa splendida giornata. Sgranocchiamo qualcosa, beviamo dell’acqua e intanto voltiamo le spalle al rifugio per valutare il da farsi. Sullo sfondo, al di là del colle, svettano la Maledia, il Clapier e l’imponente bastionata dei Gelas, a lungo ritenuta la più alta delle Marittime. In basso, nascosta alla vista, sprofonda la diga del Chiotas presieduta dal vicino rifugio Genova. Lanciamo una rapida occhiata al canale di fronte a noi, in primo piano, ancora in ombra, sulla destra del cosiddetto passo del Porco: sembra in condizioni, saliremo da lì.


Questo breve scivolo nevoso, non eccessivamente ripido, è l’accesso più diretto per giungere sul vasto altipiano del Baus, racchiuso a monte dalla muraglia dell’Argentera, qui esposta completamente ad Est.
Rifacciamo su gli zaini, indossiamo i caschi e ci avviamo: prima traversiamo a mezzacosta su un misto di neve rigelata e croste da vento, guadagnando appena qualche metro in salita, poi, una volta riposti gli sci sui fianchi dello zaino e calzati i ramponi, raddrizziamo il tiro puntando all’imbocco. Nel giro di una decina di minuti, tra una chiacchera e l’altra, siamo fuori. Dinanzi a noi si presenta un anfiteatro scarno, reduce da qualche timida nevicata che non ci ha creduto abbastanza, cotta dal sole e ridotta ad uno strato appena sufficiente per colmare i vuoti della pietraia sottostante, ma quanto basta per proseguire nuovamente sci ai piedi. Fuori la piccozza, faccia a monte e si scende.


Dobbiamo perdere qualche decina di metri di dislivello per atterrare finalmente sul Baus e puntare in direzione dell’omonimo bivacco, spartano, gelido a prima vista, un vecchio scatolato in lamiera color rosso scarlatto a tratti sbiadito, a tratti sfogliato, che pare quasi verniciato freneticamente e lasciato a metà.

Il traverso si snoda abbastanza lineare superando qualche lieve avvallamento. I rampant aiutano nella progressione e alleggeriscono il passo, mordendo la neve e dando sicurezza, soprattutto nelle zone d’ombra dove, anche solo per poche ore al giorno, gelo e disgelo non si danno tregua. Salendo di quota, ormai in prossimità della conca nevosa che dà accesso al famoso Passo dei detriti, un velo di ghiaccio ci sbarra la strada: ci troviamo su placche montonate, l’acqua di fusione proveniente dalla depressione soprastante, esposta ad Est, fuoriesce proprio in questo punto e scorrendo sul loro dorso, nella morsa del freddo notturno, rigela. Potrebbe essere un problema se si trattasse di parecchie decine di metri, non abbiamo che un paio di viti da ghiaccio, prese più per scrupolo che non nell’intento di un loro reale utilizzo, ma fortunatamente così non è.
Sulla destra notiamo addirittura un nastro di neve che aggirerebbe il tutto in pochi secondi, ma siccome siamo armati fino ai denti, o forse solo perchè vogliamo divertirci, la scelta è presto fatta. Altro cambio assetto, via gli sci, fuori i ramponi. La placconata è appoggiata, c’è spazio per salire fianco a fianco e margine per salire slegati, benchè uno di noi trasporti uno spezzone di corda al grido del “non si sa mai”.
Skitour di questo stampo esigono la massima flessibilità, le variabili in gioco sono troppe per potersi permettere il lusso di viaggiare leggeri e rinunciare a materiale potenzialmente necessario, specie se non si va a colpo sicuro.

Finalmente giungiamo al cospetto della cengia dell’Argentera, dove transita la via normale estiva alla più alta cima Sud, di 3.297 m. Il passo dei Detriti chiude il circolo a sinistra: nel 2018 l’impegno di Eolo era stato tale da farci trovare il pendio di accesso al colle completamente intasato, stracolmo di neve riportata, instabile e pericolosa, insomma una bella ciliegina sulla torta proprio sul giro di boa. Dopo aver rimuginato per una buona mezz’ora sul da farsi avevamo deciso di girare i tacchi e tornare indietro, saggiamente o no, a posteriori non lo sapremo mai.

Questa volta però è inequivocabile. Insieme a qualche barretta e un po’ di frutta secca divoriamo anche gli ultimi 100 metri. Sbuchiamo nuovamente al sole: in lontananza, ad appena una cinquantina di km in linea d’aria, la Costa Azzurra. Lo sguardo arriva fino ad Antibes, poi a Cannes e prosegue oltre.

Scattiamo foto a Nord, a Sud, a Est, a Ovest, ogni esposizione ci regala fotogrammi unici da imprimere nella memoria, e non soltanto quella di uno smartphone o di una reflex. Iniziamo a traversare in leggera discesa verso sinistra, per raggiungere il vero e proprio canale dei detriti. Non resta che chiudere questo anello e sigillare nei ricordi quello che, senza dubbio, è uno dei tour scialpinistici più belli e completi delle Alpi Marittime.

Leviamo le pelli, blocchiamo gli scarponi, peso in avanti, si scia.
Incontreremo ancora nevi marmoree, croste da rigelo infami, ed infine il caro buon vecchio portage fino al parcheggio: certo è che se non mi si fosse rotto uno sci appena sopra il Remondino, sarebbe stato meglio.
Ma questa è un’altra storia.
Autore: Loris Molineri
“Dovessi scegliere tra montagna e fotografia,
mi servirebbe uno zaino più grande.”
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