Monviso: una montagna con la M maiuscola

Ricordo bene quella sera, di ritorno dalla Val Varaita con due amici. Avevamo trascorso alcuni giorni a Casteldelfino, con l’intenzione di salire qualche cima di 3000 m nei dintorni. Per me è stato un po’ il battesimo della montagna, fino a quel momento non l’avevo mai frequentata, né tantomeno mi ero spinto a quote così elevate: ero entusiasta di queste mie prime escursioni, elettrizzato all’idea di esplorare questi angoli apparentemente remoti delle nostre valli. E quella sera, una sera d’agosto dall’aria frizzantina, con le calde sfumature del tramonto che ancora si riflettevano sul parabrezza dell’auto, ricordo di aver pensato più e più volte che mai avrei avuto né le capacità né il coraggio per salire fin lassù, a 3.841 m sopra il livello del mare.

In un certo senso il Monviso mi ha respinto ancor prima che io potessi anche solo iniziare a corteggiarlo: da un lato la curiosità mi spingeva a fantasticare, a chiedermi fin dove si sarebbe posato il mio sguardo una volta guadagnati gli ultimi metri, ma dall’altro i dubbi sulle difficoltà che avrei incontrato lungo il percorso si facevano sempre più prepotenti, sino a far vacillare me e le mie fantasie.

Oggi è il 7 di ottobre, uno splendido e limpido sabato di ottobre. È passato qualche anno da allora, il Monviso ormai è diventato un amico di vecchia data che passo a trovare volentieri di tanto in tanto, talvolta per la sua splendida ed elegante cresta Est, talvolta per la più classica e frequentata via Normale dal versante Sud. Così mi ritrovo qui, seduto sul letto, con lo sguardo spento e assonnato a fissare l’orologio: sono le 04:30 e mi convinco subito che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in quei numeri. La sveglia a queste ore del mattino si fa sempre un po’ fatica a digerire, ma la verità è un’altra: son rimasto addormentato un’ora di troppo! Poco male, le previsioni meteo per fortuna sono ottime. Preparo lo zaino, uno piccolo, mi basta l’essenziale: una pila frontale, un po’ di vestiario, dell’acqua, frutta secca ed una compatta per le foto. Colazione e si parte. Direzione Valle Po.
Non ho intenzioni particolari, obiettivi prefissati o cose di questo genere. Si tratta di tempo che prendo esclusivamente per me stesso, per fare ciò che amo con la massima libertà: decido io quanti kg portare sulle spalle, i kilometri da percorrere ed i metri di dislivello da superare. Vado a sentimento, ed è proprio questo il bello. Supero l’abitato di Crissolo che è ancora buio, giungo a Pian della Regina e senza troppi indugi decido di fermarmi qui. Il parcheggio è deserto nonostante sia sabato, il periodo di maggiore affluenza si è già affievolito. Non fa freddo, c’è una stellata meravigliosa, stringo per bene i lacci delle mie scarpe da corsa, accendo la frontale e mi avvio sul sentiero. In maniche corte, muovendosi di buon passo, si sta bene e ci si scalda in fretta. Dopo una mezz’ora mi ritrovo già a Pian del Re, sono circa le 06:30 e il crepuscolo inizia a rischiarare tutt’intorno. Incrocio di sfuggita un trio di escursionisti in partenza dal parcheggio, armati fino ai denti con borracce penzolanti, sacchi a pelo, bastoncini e ogni sorta di comfort per passare una notte fuori, probabilmente nel bivacco invernale del rifugio Quintino Sella, ormai chiuso per fine stagione. Proseguo spedito fino al primo lago, il Fiorenza, il quale mi obbliga ad una rapidissima sosta per scattare un paio di fotografie. Intanto il sole sta per rivelarsi, l’alba è vicina e decido di raggiungere un piccolo promontorio per non perdermi l’attimo: ne ho già viste tante in montagna, ma nessuna di loro è mai riuscita a stufarmi.

Trovo ci sia qualcosa di inspiegabile nelle emozioni che mi pervadono in quella manciata di minuti, qualcosa di profondamente ancestrale, quasi magico: i raggi di luce mi accarezzano il volto, penetrano in profondità sino a solleticare le corde dell’anima, chiudo gli occhi per un istante e in quell’istante mi sento vivo, mi sento io.
Un respiro profondo mi riporta alla realtà. Ora il sentiero compie un ampio semicerchio attorno al secondo lago, il Chiaretto, tinto di un inconfondibile azzurro turchese, poi si avvicina all’imponente parete Nord del Re di Pietra dove, martoriato da gelo e disgelo di innumerevoli inverni, cade vertiginoso il couloir Coolidge, ambiziosa salita di alpinismo classico. Tutt’intorno le pareti si inondano di luce dorata, mano a mano che il sole si solleva oltre la pianura.

Sono da poco passate le 8 quando finalmente scorgo il profilo del rifugio ritagliarsi dinanzi al cielo: mi fermo un paio di minuti, sgranocchio della frutta secca, bevo un sorso d’acqua, e intanto lascio correre lo sguardo lungo la splendida cresta Est che mi sovrasta, slanciata ma al tempo stesso imponente. L’ho già salita un paio di volte in compagnia di amici e dei simpatici gracchi alpini, ma oggi non si sentono null’altro che crolli: polveroni roboanti si innalzano a ritmi serrati da pareti e canali limitrofi, intimando la dovuta cautela. Qualcuno dev’essersi alzato con il piede sbagliato questa mattina. Mi rimetto in marcia e traverso in direzione del Quintino, a mezza costa, sulla destra in basso il Lago Grande di Viso. Segue un tratto in leggera discesa, poi la risalita verso il Passo delle Sagnette: il sentiero si inerpica nervoso, a stretti tornanti, fino a sbattere contro una bastionata rocciosa.

Qui ha inizio un tratto attrezzato con catene da percorrere con passo sicuro e presa salda, in un susseguirsi di traversi esposti, rampe e piccoli torrioncini. Al termine delle fatiche la visuale si apre sulla sottostante, infinita conca pietrosa delle Forciolline che, oltre ad accogliere una moltitudine di laghi e laghetti più o meno importanti, ospita il confortevole bivacco Boarelli a quota 2.860 m, punto d’appoggio per tutti coloro che provengono dalla Valle Varaita. Dopo aver perso un centinaio di metri, il sentiero ormai ridottosi a vaga traccia tra le rocce, comunque ottimamente segnate da vernice, piega verso destra e riprende a salire in direzione dell’Andreotti, secondo ed ultimo bivacco d’emergenza abbarbicato a 3.225 m in piena parete Sud.

Mi tornano alla mente i ricordi del nostro primo goffo tentativo, svanito timidamente nella nebbia di una tarda mattinata di agosto, quando sotto il peso di zaini pachidermici, attrezzati quanto una spedizione militare all’Everest, rinunciavamo a testa bassa al nostro obiettivo, così vicino ma ancora così dannatamente lontano. Eravamo saliti in giornata da Castello di Pontechianale, ma partiti troppo tardi: un errore banale, da principianti quali siamo stati tutti, ma non per questo perdonabile. Quanto meno per una montagna con la M maiuscola come il Monviso che talvolta, anzi direi spesso, mette il “cappello” già di primo mattino e se ne infischia di gettare in pasto alla nebbia le orde di escursionisti intenti a risalirne gli ultimi arditi risalti. Quella volta ci servì da lezione, capimmo che potevamo alleggerirci di materiale superfluo, che nel dubbio è sempre meglio partire un po’ prima, e che forse agosto non era esattamente il mese ideale per tentare ascensioni a quote così elevate, complice lo sbalzo termico tra notte e giorno pronto ad intorbidire in una manciata di minuti anche l’azzurro di una cartolina. 

Ma oggi no, oggi la giornata si presenta ancor meglio di una cartolina. Il tempo si mantiene stabile, al momento non c’è un filo di vento, tutto tace da questo lato. Proseguo ancora per poco su grossi blocchi e pietre instabili, ricercando a tratti l’equilibrio nei miei passi. È triste pensare che il piccolo ghiacciaio del Sella, sul quale dovrei trovarmi ora, sia stato dichiarato estinto ormai un anno fa: pare si sia ritirato sotto la coltre di sassi, stremato, quasi a voler compiere un ultimo gesto di sopravvivenza per sfuggire ai raggi del sole. Infine un ripido scivolo di pietrisco e terra battuta, che si risale non senza tentennamenti, conduce finalmente alla base del tratto più impegnativo dell’intera ascensione. Mancano poche centinaia di metri alla vetta, ma lo sviluppo qui si riduce drasticamente e la verticalità si fa padrona di ogni singola spinta verso l’alto. Incontro un paio di ragazzi, è la prima volta per loro, stanno facendo il punto della situazione: fame, sete, gambe, testa… Insomma il solito check rapido per assicurarsi che sia tutto ok prima dello sprint alla vetta. Qui svariate cenge orizzontali fendono la parete e, mentre li saluto con un “ci vediamo in cima!” mi inoltro lungo quella che dà accesso alle cosiddetta “cascatella”, una serie di placche rocciose articolate che non oppongono eccessiva resistenza. In una manciata di minuti mi ritrovo al di sopra, supero alcuni gradoni più esposti ed ecco che i passi, da corti che erano un attimo prima, tornano ad allungarsi. Qui l’ambiente inizia ad assorbirti, a fagocitarti lentamente, mentre le tracce da seguire si trasformano in un labirinto di detriti a volte indecifrabili. Si susseguono camini, balze, tratti camminabili e ancora camini. Il fatto che l’altimetro dell’orologio continui a salire, nonostante tutta questa confusione, è forse l’unica conferma che ti vien concessa per continuare. Nonostante l’abbia già percorsa svariate volte, penso tra me e me, sarebbe tutt’altro che banale districarsi in questo dedalo di pinnacoli, canali e cenge se anziché le care tacche gialle avessimo a disposizione soltanto la nuda roccia. Ad un certo punto alzo il capo, gli occhi corrono a cercare dei punti di riferimento, intravedo quelli che potrebbero sembrare i famosi “fornelli”, mi avvicino, sì sono loro. Lascio che altri due ragazzi, legati in cordata, disarrampichino con tutta calma: si tratta pur sempre del passaggio chiave della via, quello tecnicamente più impegnativo. Li saluto, auguro loro una buona discesa ed arriva il mio turno: devo arrampicare prima lungo una fessura, sul fondo di un diedro levigato dai numerosi passaggi, poi issarmi oltre una serie di blocchi sporgenti per un totale di una ventina di metri. Salgo deciso, le scarpe da corsa non sono l’ideale certo, ma dalla mia ho un po’ di esperienza in fatto di roccia e la voglia di raggiungere la vetta, di lì a breve, mi carica ulteriormente. Una volta uscito, inizio l’ultimo grande traverso ascendente verso destra, andando quasi ad appoggiarmi sulla cresta Est. Qui uno slanciato torrione, che dire caratteristico e unico è dir poco, veglia solenne sui viandanti di passaggio: è la “testa dell’aquila”. Segno inconfutabile che la cima è ormai a due passi.

Il vociare di coloro che già festeggiano per la riuscita della salita si fa sempre più nitido. Risate, esclamazioni, parole incomprensibili si mescolano in quell’aria che ora si è fatta leggera, sottile e sfiora i fatidici 4000 m dei giganti delle Alpi. Ultimi metri, il fiato è corto, la quota impone il ritmo, lo rallenta, ma il cuore pompa. Le gambe sono doloranti, i muscoli invocano riposo, le fibre sono tese come corde di violino, ma il cuore pompa.

Un ultimo, liberatorio, respiro profondo: i polmoni si riempiono, la testa si svuota. Non vorrei essere da nessun’altra parte, se non qui e ora. Guardo l’altimetro. Sono felice. 

3.841 m 

Autore: Loris Molineri

“Non saprei…Dovessi scegliere tra montagna e fotografia, nel dubbio partirei con una piccozza ed una reflex.”

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Pubblicato da Le mie Strade di Cuneo e Provincia

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